venerdì 1 giugno 2012

Come arrivare al lavoro tra passeggiate, osservazioni naturalistiche e battaglie per la sopravvivenza

Questa mattina sono arrivata alla fermata dell'autobus con un leggero anticipo di 45 minuti. 
Mi sono superata, di solito arrivo solo mezz'ora prima.
Uscendo di casa, mi sono sentita chiamare. C'è qualcosa, nella primavera - quando è vera primavera - che insolletichisce i sensi, li risveglia e, letteralmente, davvero, li chiama. 
Mi è bastato uscire 10 minuti prima e il mondo, la stradina che dal parco mi porta fino all'autobus, mi è sembrato meno contaminato e più reale, gorgheggiante dei suoi suoni naturali. Uno specchio limpido, un respiro pieno. Puro.

I conigli erano sdraiati sul prato, belli distesi, ancora sonnacchiosi, quelli più piccoli già saltellanti, ma in tutta calma; la bella merla elegante dalle zampe sottili bilanciava la coda dopo l'atterraggio, già pronta al successivo volo; un uccellino minuscolo si confondeva tra le foglie color salvia, così tondo da sembrare un fruttino acerbo, che adocchiavo e perdevo tra i rami, e che ha spiccato il volo con un pìo acutissimo, piccola oliva con le ali. Tutti al loro posto, tutti canterini e vagolanti, come me, al mio fianco.
Anche le persone sono più mansuete, la mattina dietro al parco, ti sorridono quando le incroci; corrono, oppure portano a spasso i cani, o vanno in bicicletta.  La cosa più veloce in genere sono io - non più veloce dei corridori, ma più nervosa, nel senso fisico del termine, con la fretta  nelle mani e nelle gambe. Fretta di arrivare, comunque sempre in anticipo.
Ma questa mattina no, me la sono passeggiata con calma, la strada dietro il parco, col suo mormorio di animali e il frusciare del fiume.
Nella mia ipersuscettibilità metereopatica, iniziare una giornata come ho fatto oggi indica buona sorte, scintille in amore, leggere discordanze sul lavoro risolvibili con un po' di buona volontà, schiarite verso sera.


Mi sto affezionando alla sorte degli animaletti dei quali ogni giorno invado il territorio (tanto più che sto leggendo "La collina dei conigli", quindi alla trasformazione completa in erbivoro saltiforme mi manca poco), mi piace spiarli tutti affaccendati alle prime ore del mattino.
Come quando mi sono fermata sorridente a guardare un povero merlo che cercava di alzarsi in volo con nel becco un lombrico nerboruto.
Acciuffata la preda, il merlo fa per alzarsi, ma il verme cade; lo riprende, ma barcolla; scrolla il capino, si riavvicina all'invertebrato, che intanto tenta la fuga, prova ad inchiodarlo al suolo con veloci beccate, lo manca; fa finta di niente, si avvicina di soppiatto, ma il lombrico lesto scivola via; lo riacciuffa, ricade. La battaglia epica sarebbe potuta continuare ore, e la mia tensione con lei. 
Ma una seria corridrice con gli occhiali si stava avvicinando: avevo già avvistato il suo sguardo scrutatore, il giudizio saldo delle sue pupille. Il mio pendere estasiato verso la vita pratesca poteva in effetti ben sembrare strano, il senso di vergogna al suo passaggio è stato più forte della curiosità, e ho distolto l'attenzione dal sanguinoso scontro. 

Così ho perso di vista merlo e verme. E non saprò mai come andò a finire. 



merlo evidentemente soddisfatto del suo bottino

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